11 Marzo 2020, l’hashtag #iostoacasa impera e io, munito di tesserino e una piccola telecamera, voglio filmare questa Milano in guerra con le serrande abbassate al posto delle macerie. Nessuna velleità artistica, solo la testimonianza per i decenni futuri, come quando oggi ci stupiamo di fronte alle fotografie in bianco e nero della Milano degli anni ’70 con le targhe alterne per l’austerity, e sbarriamo gli occhi guardando le immagini della nevicata dell’’85. Mi chiedo come ci riguarderemo tra vent’anni, noi che oggi stiamo vivendo questo dramma distopico? E cosa penserà chi oggi non c’è? I figli del domani sapranno percepire appieno lo straniamento dell’epidemia? Il mio obiettivo è fornire lo strumento concreto per dare voce alla memoria collettiva.
La metropolitana è quasi deserta, nessuno occupa un posto se non ce ne sono almeno due liberi accanto. Le strade che scelgo di percorrere sono frutto di un istinto animale che cammina random, filmando il vuoto. Come si riprende l’assenza? Una grande lezione di cinema propone, in un celebre film drammatico degli anni ’30 “M Il mostro di Dusseldorf”, il piatto di minestra a tavola, pronta per il pranzo, la bambina che dovrebbe mangiarla non c’è e, al suo posto, la madre guarda l’orologio che scandisce l’angosciante tempo dell’attesa.
Incontro una sovrapposizione di tracce con il quale il virus sta marcando il territorio: la stazione Centrale con poche persone, la biblioteca degli alberi, di solito fitta di gente, soprattutto ora con un’esplosione primaverile di fiori che inviterebbe a uscire, è una scacchiera con pezzi sparuti e distanti. Piazza Gae Aulenti si è trasformata nel fulcro del nulla con gli esercizi commerciali chiusi, al punto che se urlassi si sentirebbe l’eco.
Poco distante Eataly, dove mediamente c’è la fila per entrare e vivere esperienze sensoriali tra la bufala campana e la bresaola valtellinese, in un trionfo di DOC, DOP e IGP e, è un contenitore di niente. Esco, un rider mi schizza accanto, col suo scatolone giallo come il sole che non c’è più, verso una consegna a chi è recluso.
Piazza Duomo è leggermente più animata, in galleria un gruppo di adolescenti annoiati in monopattino viene fermata dai vigili. Nessuno si assembra, gli abbracci virtuali che i rari passanti cercano nel telefonino non consolano il cuore, ma danno solo l’esatta misura di un’unica realtà: siamo soli. Lo siamo se la città che amiamo è costretta a chiudere e noi che abbiamo deciso di viverci per viverla, con la sua cultura e i suoi intrattenimenti di ogni tipo, ci tappiamo in casa, nonostante, sia giusto così.
La paura è dipinta negli occhi che sbucano dalle mascherine di chi è fuori ma vorrebbe essere dentro e si affretta a rincasare, a disinfettarsi e a mettersi in sicurezza, senza sentirsi mai davvero protetto.
Il tempo che ho catturato col mio DJI Osmo pocket, inoltrandomi fino in Montenapoleone e ai Gardini Montanelli, trovando ovunque il medesimo risultato di desolazione, racconta che abbiamo stravolto le nostre vite, per continuare ad averne una. Recupereremo tutto tranne chi non c’è più, chi banalmente ha pagato il prezzo più alto.